ISCHIA – Il depuratore di San Pietro non si farà. Era un’opera fortemente voluta da Luigi Telese nel 2001. Il tar ha deciso che “accoglie le domande proposte dalla ricorrente LIMPARO nei termini di cui in motivazione, e per l’effetto:

b1) accerta l’illegittimità dell’occupazione del fondo di proprietà della ricorrente dal 30 giugno 2016 fino all’attualità;

b2) condanna l’Arcadis alla restituzione, previo ripristino dello status quo ante, dei cespiti occupati, liberi da persone o cose, entro il termine di tre mesi dalla comunicazione ovvero notificazione della presente sentenza;

b3) condanna l’Arcadis al pagamento dell’indennità di occupazione in favore della ricorrente, da quantificarsi, ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a., secondo i criteri indicati in motivazione;

c) condanna l’Amministrazione soccombente a rimborsare alla parte ricorrente le spese di giudizio, liquidate complessivamente in € 2.000,00 (duemila/00), oltre ad oneri accessori, come per legge, ed oltre alla refusione del contributo unificato;

IL TESTO DEL PROVVEDIMENTO

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

(Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5183 del 2016, proposto da
Limparo S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Marina Scotto, con domicilio eletto presso il suo studio in Napoli, via Francesco Caracciolo n. 15;

contro

Agenzia Regionale Campana Difesa Suolo (Arcadis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura dello Stato, domiciliataria ex lege in Napoli, via Diaz, 11;

per l’accertamento dell’obbligo di provvedere:

– alla retrocessione, ex art. 46 e 47 del T.U. di cui al D.P.R. n. 327/2001, e comunque alla restituzione all’avente diritto, delle aree occupate dal Commissario di Governo per la Bonifica e Tutela delle Acque nella Regione Campania, con decreto di occupazione di urgenza n. 289/2004, meglio identificate nell’ “atto di asservimento di area in Ischia località San Pietro per la realizzazione di un impianto di depurazione”, rep. n. 83 del 30 gennaio 2010;

– al pagamento dell’indennità di occupazione delle aree occupate, dal Commissario Delegato per le Bonifiche e la Tutela delle Acque in Campania ex P.C.M. n. 2425 del 18.3.1996 e dalla sua dante causa, dall’1 gennaio 2010 a tutt’oggi, oltre interessi, rivalutazione monetaria ed accessori come per legge, ai sensi dell’art. 5 dell’atto rep. n. 83 del 30 gennaio 2010, come riconosciuto e confermato nel verbale di concordamento come sottoscritto in data 25 novembre 2013 dall’Agenzia regionale campana difesa suolo e dalla società Limparo s.r.l.;

nonché per il risarcimento del danno derivante dall’inadempimento delle obbligazioni assunte con atto di asservimento rep. n. 83 del 30 gennaio 2010;

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Agenzia Regionale Campana Difesa Suolo (Arcadis);

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 26 maggio 2020, tenuta da remoto ai sensi del D.L. 18/2020 e succ. mod., il dott. Fabio Maffei e riservata la causa in decisione sulla base degli atti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1.- La società ricorrente premette di essere divenuta proprietaria nell’anno 2004 di un complesso immobiliare sito nel Comune Ischia, località San Pietro, oggetto di una procedura espropriativa avviata nel 2001 (con ordinanza commissariale n. 533 del 26 gennaio 2001, cui ha fatto seguito il decreto di occupazione di urgenza n. 289/2004), finalizzata alla realizzazione di un impianto di depurazione a servizio delle fognature di Ischia e di Barano d’Ischia.

In data 30 gennaio 2010, era stato sottoscritto tra il Commissario di Governo delegato per la risoluzione dello stato di criticità in materia di bonifiche e tutela delle acque nella Regione Campania, da un lato, e la società Limparo s.r.l., dall’altro, un atto transattivo (rep. n. 83), che prevedeva la retrocessione alla società della parte superficiale delle aree occupate, con asservimento dell’area interrata. L’atto stabiliva che l’intera proprietà sarebbe stata restituita alla società ricorrente, qualora l’opera non fosse stata realizzata entro il 31 dicembre 2012. Il corrispettivo per l’asservimento e per l’occupazione fino al 31 dicembre 2009, era stato determinato nell’importo complessivo di € 58.286,73.

Le parti convenivano, altresì, che con riferimento al successivo periodo di occupazione l’indennità sarebbe stata corrisposta secondo i criteri di legge.

Successivamente, con verbale del 25 novembre 2013, l’Agenzia regionale campana difesa suolo – Arcadis (subentrata alla gestione commissariale) e la società Limparo s.r.l. avevano concordato la proroga del termine di ultimazione delle opere fino al 30 giugno 2016.

A detta della ricorrente, entro il termine prorogato (30 giugno 2016) non solo l’opera pubblica non era stata realizzata, cosicché le aree occupate versavano in stato di abbandono, ma anche non era stata posta in essere alcuna attività edilizia, ovvero di ripresa dei lavori, per la realizzazione dell’opera pubblica.

La ricorrente, dunque, si doleva dell’inadempimento da parte dell’Agenzia regionale campana difesa suolo – Arcadis – in ordine a tutti gli obblighi derivanti dall’atto di asservimento rep. 83 del 30 gennaio 2010 e dal verbale di concordamento del 25 novembre 2013, in quanto la suddetta Agenzia non avrebbe né corrisposto l’indennità di occupazione temporanea – dal 1° gennaio 2010 ad oggi – né eseguito, ed invero neppure iniziato, nel termine del 30 giugno 2016, l’intervento per cui era stata attivata la procedura espropriativa sin dall’anno 2001.

Sarebbero inoltre rimasti privi di riscontro tutti gli inviti rivolti alla amministrazione competente – da ultimo, con atto di diffida e costituzione in mora del 27 luglio 2016 – sia per la restituzione delle aree, come convenuto e precisato all’art. 6 dell’atto rep. n. 83 del 30 gennaio 2010, sia per la corresponsione dell’indennità di occupazione delle aree occupate dall’1 gennaio 2010 a tutt’oggi, oltre interessi ed accessori come per legge.

Tanto premesso, l’odierna ricorrente, con il rito del silenzio, ha domandato, ai sensi degli artt. 31 e 117 del c.p.a., l’accertamento e la declaratoria dell’illegittimità del silenzio – rifiuto asseritamente formatosi per effetto della inerzia dell’Amministrazione in ordine alle richieste di adempimento dell’atto di asservimento rep. 83 del 30 gennaio 2010, relativamente alla mancata realizzazione dell’opera pubblica nel termine del 31 dicembre 2012, poi prorogato al 30 giugno 2016, e, dunque, alla mancata retrocessione nella esclusiva titolarità della società proprietaria delle aree oggetto dell’intervento nonché in ordine al pagamento della indennità di occupazione dall’1 gennaio 2010 ad oggi, secondo i criteri fissati dalla legge.

Ha chiesto inoltre che fosse ordinato all’Amministrazione di provvedere in ordine alla suddetta istanza, sia concludendo il procedimento con un provvedimento espresso di restituzione all’avente diritto delle aree come descritte in premessa, sia fissando il termine per provvedere con la nomina, fin da ora, in caso di inosservanza, di un commissario ad acta affinché provvedesse in via sostitutiva a spese dell’Amministrazione.

Si è costituita l’amministrazione resistente eccependo, in via preliminare, il difetto di giurisdizione dell’adito Tribunale. Nel merito, poi, ha sostenuto l’infondatezza della domanda avendo offerto alla società ricorrente il pagamento della ricalcolata indennità di occupazione e non potendo procedere alla restituzione dei fondi in quanto oggetto di una rinnovata procedura espropriativa.

Con ordinanza n. 1251/2017, il Collegio, riqualificata, ai sensi dell’art. 32 c.p.a., la proposta domanda come volta all’esecuzione dell’accordo intercorso tra le parti, ha disposto il mutamento del rito, fissando per la trattazione del merito l’udienza del 18 luglio 2017, ulteriormente rinviata in ragione della concorde richiesta delle parti.

Alla camera di consiglio del 26 maggio 2020, tenuta da remoto ai sensi dell’art. 84, comma 6, D.L. 18/2020, la causa è stata riservata in decisione sulla base degli atti.

2.- In via preliminare, deve ribadirsi la giurisdizione dell’adito Tribunale conformemente a quanto statuito, in sede cautelare, con l’ordinanza n. 125172017 RG., in ragione della causa petendi dell’azionata pretesa, chiaramente volta a conseguire l’adempimento dell’accordo di asservimento sottoscritto, inter partes, in data 30 gennaio 2010 (rep. n. 83), come integrato dal successivo verbale di concordamento del 25 novembre 2013, costituente patto accessorio ed integrativo del primo accordo.

All’opposta soluzione sostenuta dalla resistente è di ostacolo, in via dirimente, il dettato normativo, atteso che, ai sensi dell’art. 133 c.p.a., rubricato “Materie di giurisdizione esclusiva”, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di “formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo e degli accordi fra pubbliche amministrazioni”.

Come recentemente chiarito dalla Corte di Cassazione, in ossequio ad un costante orientamento giurisprudenziale, l’attribuzione, ai sensi dell’art. 113, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 104 del 2010, della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in relazione agli accordi riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di pubblici poteri in materia di espropriazione, riguarda gli accordi conclusi tra i proprietari destinatari dei poteri ablatori e la P.A. espropriante, in quanto l’elemento fondante della giurisdizione amministrativa, anche nelle ipotesi in cui sia attribuita in via esclusiva, è costituito dall’azione dell’amministrazione attraverso l’esercizio, anche indiretto, di pubblici poteri, nei confronti di coloro che a tali poteri sono assoggettati (cfr.: Cassazione civile sez. un., 18/07/2019, n.19369; Cass. Civ., n. 9334 del 2018; Cass. Civ., n. 17110 del 2017; Cass. Civ., n. 8349 del 2013; Cass. Civ., n. 2029 del 2008).

3.- Acclarato il corretto radicarsi della giurisdizione amministrativa, quanto al merito, il ricorso è fondato e va accolto.

La società ricorrente ha agito in giudizio affinché fosse accertato l’inadempimento della Arcadis con riguardo all’accordo di asservimento, sottoscritto inter partes in data 30 gennaio 2010 (rep. n. 83), e successivamente integrato con il verbale del 25 novembre 2013. Con tale ultimo atto le parti avevano concordato di prorogare l’originario termine fissato al 31.12.2012 per l’ultimazione dell’opera da realizzarsi sui cespiti occupati fino al 30 giugno 2016, stabilendo altresì che, qualora entro l’indicata data l’opera pubblica non fosse stata completata, l’intero compendio immobiliare sarebbe stato restituito alla società ricorrente.

Ciò posto, osserva il Collegio che l’art. 11, l. 7 agosto 1990, n. 241 non rende “de plano” applicabili agli accordi della Pubblica amministrazione le disposizioni del codice civile in tema di obbligazioni e contratti, bensì i soli « principi » dalle stesse ricavabili, stante la non immediata adattabilità, sia ad accordi non aventi natura contrattuale, sia a convenzioni/contratto, delle norme valevoli per le espressioni di autonomia privata.

La concreta applicabilità passa, invece, per una verifica di compatibilità in concreto, operata tenuto conto della specifica natura dell’atto bilaterale sottoposto a giudizio, dei « principi » (e di quanto da essi desumibile) in tema di obbligazioni e contratti, e dunque senza per ciò stesso escludere la stessa applicazione di puntuali disposizioni in tema di obbligazioni e contratti, nei casi in cui agli accordi possa riconoscersi una natura prettamente contrattuale (cfr.: Consiglio di Stato – sez. IV, 03/12/2015, n. 54929).

Per un verso, dunque, la generale disciplina dell’art. 11 trova applicazione (anche) nel caso di “convenzioni” con contenuto patrimoniale, afferenti tuttavia al previo esercizio di potestà; per altro verso, non può escludersi che la stessa possa trovare applicazione anche ad ipotesi in cui difetti ogni “substrato patrimoniale”.

In tale contesto, l’applicazione dei principi in tema di obbligazioni e contratti agli accordi dell’amministrazione (riconducibili o meno alla generale figura del contratto) trova in ogni caso un limite, con la conseguente suddetta necessità di adattamento, nella immanente presenza dell’esercizio di potestà pubbliche e nelle finalità di pubblico interesse cui le stesse sono teleologicamente orientate.

Come la giurisprudenza ha avuto modo di osservare (Cons. Stato, sez. V, 5 dicembre 2013 n. 5786; 14 ottobre 2013 n. 5000), fermi i casi di contratti di diritto privato (per i quali trovano certamente applicazione le disposizioni del codice civile), nei casi di contratto ad oggetto pubblico l’amministrazione mantiene comunque la sua tradizionale posizione di supremazia; tali contratti non sono, dunque, disciplinati dalle regole proprie del diritto privato, ma, come sopra detto, dai soli “principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti”, sempre “in quanto compatibili” e salvo che “non diversamente previsto”.

In particolare è stato affermato che, sussistendone i presupposti come sopra delineati, il giudice ben possa fare applicazione anche della disciplina dell’inadempimento del contratto, allorché una parte del rapporto contesti alla controparte un inadempimento degli obblighi di fare (cfr.: Cons. Stato, sez. IV, 24 aprile 2012 n. 2433).

Al riguardo, la giurisprudenza – utilizzando il suesposto criterio dell’applicazione “compatibile” – ha avuto modo di affermare:

– che l’impegno assunto dall’amministrazione attraverso l’accordo non può risultare vincolante in termini assoluti, in quanto esso riguarda pur sempre l’esercizio di pubbliche potestà (Cons. Stato, sez. V, 31 gennaio 2001 n. 354);

– che il cd. “autovincolo” derivante all’amministrazione da un accordo può perdere successivamente consistenza a seguito del confronto delle posizioni caratterizzanti le fasi successive del procedimento (Cons. Stato, sez. IV, 9 novembre 2004 n. 7245).

Quanto, poi, alla ripartizione dell’onere probatorio in materia contrattuale, costituisce granitico principio giurisprudenziale, proprio del diritto delle obbligazioni, quello secondo cui il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno ovvero per l’adempimento deve provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi poi ad allegare la circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre al debitore convenuto spetta la prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento (cfr.: Cass., sez. III, 20 gennaio 2015, n. 826).

Conclusivamente, se è vero che l’art. 11 l. n. 241/1990 non rende applicabili agli accordi in cui sia parte la pubblica amministrazione le norme del codice civile in tema di obbligazioni e contratti, bensì i “principi”, con ciò presupponendo una non immediata adattabilità – sia ad accordi non aventi natura contrattuale, sia a convenzioni/contratto – delle norme valevoli per le espressioni di autonomia privata, è altrettanto vero che non può escludersi la stessa applicazione delle nome dettate in tema di obbligazioni e contratti, nei casi in cui agli accordi debba riconoscersi, come nel caso in esame, una natura prettamente contrattuale (cfr.: Consiglio di Stato sez. IV, 03/12/2015, n.5492).

3.1.- Nel caso di specie, mentre la ricorrente, in quanto creditrice, ha assolto ampiamente il proprio onere probatorio con la produzione sia della convenzione stipulata in data 30 gennaio 2010, sia del successivo patto modificativo dell’originario accordo che obbligava l’agenzia resistente a restituire il compendio occupato decorso il termine del 30 giugno 2016, quest’ultima non ha dimostrato né di aver adempiuto, né di aver instaurato un nuovo procedimento espropriativo, come genericamente allegato con la memoria di costituzione depositata in data 27 giugno 2017, senza tuttavia supportare la predetta deduzione con il necessario riscontro documentale.

Il Collegio deve evidenziare che l’obbligo di restituire il cespite occupato era stato espressamente assunto dall’amministrazione resistente in ragione di quanto convenuto con l’originario accordo, ribadendo tale impegno con il successivo patto integrativo sottoscritto in data 25 novembre 2013, così da non residuare alcun margine di valutazione discrezionale a posteriori, essendosi la discrezionalità già consumata “ex ante”, mercé l’autovincolo che l’Amministrazione aveva accettato, trasfondendolo in vincolo contrattuale, con la stipula della predetta convenzione.

Al riguardo è opportuno osservare che la scadenza di un atto o di un provvedimento che a qualsiasi titolo abbia consentito l’occupazione di un bene da parte di un soggetto diverso dal proprietario determina, a far data dalla scadenza del termine previsto, l’occupazione di fatto del bene stesso, essendo necessario, per far cessare l’occupazione, un atto di riconsegna del bene al proprietario, in mancanza del quale l’occupazione permane e, in quanto illegittima, costituisce fonte di responsabilità.

Difatti, la detenzione qualificata dell’area (cfr. Cass. Civ., Sez. II, n. 132/1992; Cass. Civ. Sez. I, n. 10686/2005, Cass. Civ., Sez. I, n. 2952/2003) da parte del soggetto, per effetto di un provvedimento amministrativo ovvero di una convenzione conclusa con il privato, si trasforma, a seguito della scadenza del termine di efficacia del provvedimento stesso, in detenzione “sine titulo”; ciò determina il sorgere in capo al soggetto stesso di un obbligo di restituzione del bene al legittimo proprietario. Per la riconsegna del bene non si richiedono particolari formalità (Cass. Civ., Sez. I, n. 2952/2003), ma deve comunque trovare applicazione la normativa contenuta negli artt. 1140 e segg. cod. civ., secondo cui, per la perdita del possesso materiale del bene nel caso di detenzione qualificata, occorre quanto meno che venga esteriorizzato, da chiari ed inequivoci segni, l'”animus derelinquendi”.

In altri termini, l’obbligo di restituzione, previa riduzione in pristino stato, opera anche nel caso in cui l’occupazione dell’amministrazione sia stata, ab origine, legittima.

In realtà, la resistente, prima occupando il bene in forza dell’accordo raggiunto con la società ricorrente e poi non provvedendo alla sua restituzione previa riduzione in pristino, ha finito per porre in essere un illecito permanente (consistente nell’aver privato illegittimamente la ricorrente della disponibilità del fondo a partire dalla scadenza del termine di occupazione convenuto nell’accordo stipulato inter partes), in violazione degli obblighi civilistici, che impongono al soggetto che detiene un bene “sine titulo” di provvedere all’immediata riconsegna del bene stesso al proprietario.

Dunque, risultando priva di idoneo titolo legittimante, l’occupazione dei terreni di proprietà dell’odierna ricorrente, dalla scadenza del termine stabilito nell’accordo inter partes e a tutt’oggi, va considerata sine titulo, sicché, essendosi l’Arcadis limitata esclusivamente ad affermare, senza allegare alcuna prova, l’avvenuta intenzione di rinnovare il procedimento espropriativo, deve essere accolta la relativa domanda di restituzione, con la conseguente condanna della resistente alla restituzione del cespite, libero e sgombero da persone e cose, e con riduzione in pristino delle opere sullo stesso realizzate in seguito alla illegittima protrazione della sua detenzione, entro il termine, che si ritiene congruo, di tre mesi dalla comunicazione ovvero notificazione della presente sentenza.

3.3.- Parimenti, deve ritenersi provato l’an del diritto di credito vantato dalla ricorrente società ed avente ad oggetto l’indennità di occupazione temporanea dovuta a far data dal 1° gennaio 2010, in ragione della espressa previsione della clausola n. 6 pattuita con convenzione del 30 gennaio 2010, avendo peraltro la stessa Arcadis riconosciuto la sua debenza, essendosi il contrasto delle parti incentrato esclusivamente in ordine al suo quantum.

3.4.- Con riguardo alla liquidazione della predetta indennità, considerato che la menzionata clausola ne imponeva la determinazione in ragione dei “criteri legali”, il Collegio ritiene di pronunciare sentenza di condanna ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a., a tale scopo stabilendo i seguenti criteri generali per la liquidazione:

a) l’amministrazione soccombente dovrà proporre alla parte ricorrente, entro il termine di 90 giorni dalla comunicazione in via amministrativa o dalla notificazione della presente sentenza, il pagamento delle somme dovute per il periodo di occupazione decorrente dal 1° gennaio 2010 fino alla sua riconsegna alla ricorrente;

b) la suindicata indennità dovrà quantificarsi in ragione delle effettive possibilità di utilizzazioni intermedie tra l’agricola e l’edificatoria (parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti ecc.), sempre che siano assentite dalla normativa vigente, sia pure con il conseguimento delle opportune autorizzazioni amministrative (cfr.: Cassazione civile – sez. VI, 01/02/2019, n. 3168);

c) gli interessi, nella misura legale, dovuti per la ritardata corresponsione delle somme spettanti a titolo di indennità di occupazione, in ragione della loro natura e funzione compensativa, decorreranno dal momento di maturazione dei corrispondenti diritti, ovvero più specificamente, dalla scadenza di ciascuna annualità di occupazione fino al soddisfo.

4.- Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, così statuisce:

b) accoglie le domande proposte dalla ricorrente nei termini di cui in motivazione, e per l’effetto:

b1) accerta l’illegittimità dell’occupazione del fondo di proprietà della ricorrente dal 30 giugno 2016 fino all’attualità;

b2) condanna l’Arcadis alla restituzione, previo ripristino dello status quo ante, dei cespiti occupati, liberi da persone o cose, entro il termine di tre mesi dalla comunicazione ovvero notificazione della presente sentenza;

b3) condanna l’Arcadis al pagamento dell’indennità di occupazione in favore della ricorrente, da quantificarsi, ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a., secondo i criteri indicati in motivazione;

c) condanna l’Amministrazione soccombente a rimborsare alla parte ricorrente le spese di giudizio, liquidate complessivamente in € 2.000,00 (duemila/00), oltre ad oneri accessori, come per legge, ed oltre alla refusione del contributo unificato;

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Napoli nella camera di consiglio, riunita mediante collegamento da remoto ai sensi del comma 6, art. 84, DL. 18/2020, del giorno 26 maggio 2020, con l’intervento dei magistrati:

Maria Abbruzzese, Presidente

Diana Caminiti, Consigliere

Fabio Maffei, Referendario, Estensore

 
 
L’ESTENSOREIL PRESIDENTE
Fabio MaffeiMaria Abbruzzese
 
 
 
 
 

IL SEGRETARIO